RIMUOVERE PER SOPRAVVIVERE: MEMORIE DIMENTICATE

La rimozione storica e personale sono due facce della stessa medaglia. Entrambe ci toccano da vicino: da un lato, siamo parte di una nazione, di un popolo, di una collettività che rielabora il proprio passato; dall’altro, la memoria si materializza nella sfera privata, attraverso le esperienze vissute direttamente o raccontate dai nostri cari.

Si dice spesso di qualcuno che “fa una guerra” o che “combatte una battaglia” in riferimento alle difficoltà della vita quotidiana, per ottenere qualcosa, per raggiungere un obiettivo economico, sociale, sportivo. Ma quando i termini “guerra” e “battaglia” non sono più usati in senso metaforico, quando il conflitto è reale, non c’è più spazio per giochi o retorica. In guerra si combatte per sopravvivere e si affrontano sofferenza, paura, delusione, dolore. Vi si tratta di sangue, di morte, di fame, di un’esistenza quotidiana che si riduce a un’unica, angosciante necessità: sopravvivere. Ma anche la sopravvivenza non è univoca: si spera nella vittoria come evento necessario per un felice ritorno a casa, ma ci si può trovare invece sconfitti e prigionieri o ancora a dover combattere un secondo tempo ancor più aspro e sconvolgente.
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Lo so bene perché ho letto direttamente le memorie di mio padre. Gli parlavano di vittoria mentre i suoi compagni morivano; si aspettava il ritorno a casa, e invece ecco un’altra guerra. Gli chiesero di correre allo scoperto in soccorso dei compagni in pericolo e gli diedero una medaglia. Gli gridarono di buttarsi a capofitto giù da un dirupo per non finire prigioniero, e lui alla fine cadde sfinito nella neve, dopo aver recuperato l’arma scagliata prima di gettarsi. Rimase nascosto in una buca, sotto un telo coperto di neve, da cui poteva uscire solo di notte per non essere colpito, e senza cibo, mentre i compagni che cercavano di portarglielo venivano falciati nei pressi di un ponticello da attraversare per forza. Aveva la febbre, ma serviva in prima linea, e il comandante di battaglione gli regalò poi un orologio. Finita quest’altra guerra lo mandarono al mare a riposarsi. Ma subito ne arrivò un’altra ancora, in cui il nemico andava cercato sui monti, ma non c’era mai, eppure sparava lo stesso. Soccorse e medicò un compagno sotto il fuoco dei ribelli e ricevette per questo un altro riconoscimento.

Di “vittoria” a un certo punto non si parlò più, ma neanche di “sconfitta”, perché dissero solo che “la guerra era finita”. Ma non era vero. Ne sarebbe iniziata subito un’altra, e lui era pronto ad affrontare il nuovo nemico: ma fu tradito. Non dai compagni, non dal suo comandante, che fu trucidato, ma da generali imbelli che volevano solo compiacere i prepotenti e salvare la propria pelle. Gli chiesero di firmare e lui firmò, ma tre volte “No”. E il 30 agosto 1945 tornò, con una valigia piena dei ricordi del campo di concentramento, che diventarono curiosità della mia prima infanzia. Arrivò alla Stazione Centrale di Milano, quando l’eco della nostra storia di Novelli non aveva ancora potuto spegnersi.  
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Scendendo le grandi scale, davanti alla città da cui era partito l’ultima volta trenta mesi prima, dopo l’ultima licenza, avrà ripensato a quella “vittoria” che l’aveva sfamato e illuso per tanto tempo, l’avrà vista sgretolarsi, nelle tante parcelle di dolore di quei cinque anni d’inferno e perdere le piume delle sue ali, immense per dover sostenere tutto quel sacrificio, tutta quella parte di vita che se n’era andata via per sempre. Avrà pensato a come raccontarla, con chi condividerla, magari con un figlio, un giorno… Ma ebbe poco tempo per pensarci e per raccontarla: dovette semplicemente negarla. E forse gli fu facile: perdere la guerra, per un soldato, a prescindere dal contesto politico, è sempre un’onta; perdere l’occasione del riscatto è vergognarsi allo specchio; trovare un mondo che ti guarda con sospetto è insopportabile. Tecnicamente: rimozione.
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Evidentemente, sia a livello generale, sia per quanto mi riguarda personalmente, ha funzionato: per decenni ho immaginato mio padre come se fosse stato impegnato a girare un film di guerra in bianco e nero, per poi tornare sano, salvo e forte. Del resto, i film di guerra e quelli western di quei tempi ci mettevano del loro: cadevano a terra silenziosi, integri e puliti, trafitti da un invisibile raggio della morte. E i fumetti di Tex pure: una traccia nel vuoto e… zip! Erano ancora lontani gli anni Ottanta degl’iperrealistici film tipo “Platoon”!   
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Anche per i partigiani si verificò un processo simile, seppure con dinamiche diverse. Tornati dalla lotta, per un periodo vissero sull’onda dell’entusiasmo. Ma ben presto il clima politico mutò. Ufficialmente, il loro sacrificio veniva glorificato, ma nella realtà furono disarmati, marginalizzati, per la maggior parte dimenticati, molti perseguitati; troppi, rientrando in fabbrica, si trovarono a prendere ordini e a subire ritorsioni dagli stessi capi di prima, ex fascisti nel frattempo riabilitati.

Anche qui, rifacendomi ai ricordi personali, ricordo di aver incontrato alcuni ex partigiani dell’Oltrepò Pavese. I loro racconti erano episodici, frammentari, spesso privi di enfasi. Non c’era il tono della celebrazione o dell’autoesaltazione: emergeva piuttosto un senso di tristezza, una volontà di ridimensionare il proprio passato, di rassegnarsi al passare del tempo che, insieme ai loro capelli, ne imbiancava la memoria. Raccontavano dei “Mongoli”, dei quali avevo già sentito nei racconti di mia madre e mia nonna, o evocavano uno scampato nell’affrontare la Sicherheit, mai di morti. Episodi straordinari, che mi lasciavano senza fiato, ma raccontati con distacco: la narrazione era rapida, senza pathos, quasi banale.   

La rimozione storica e personale non è una semplice dimenticanza: è una forma di autodifesa, un modo per sopravvivere a esperienze troppo dolorose. Mio padre, come tanti altri, scelse di mettere da parte la sua storia per poter andare avanti. I partigiani, dopo la guerra, dovettero adattarsi a un mondo che, mentre li celebrava, spesso li metteva ai margini.
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Col tempo e con l’avvento di tempi maturi, nei quali la storia e il sentimento nazionale parvero riconciliarsi, la memoria riaffiorò. E così, come collettiva e personale fu la soppressione del ricordo, altrettanto lo fu la rivalutazione delle gesta, prima per la Resistenza e poi per gli IMI. Due percorsi distinti, ma entrambi segnati da una lunga fase di silenzio e da una riabilitazione arrivata troppo tardi per molti dei protagonisti. Negli anni ’70 la Resistenza fu oggetto di una rivalutazione politica e storica, mentre negli anni ’90 anche gli IMI ricevettero un tardivo riconoscimento per il loro sacrificio, con molte ricerche e pubblicazioni: un’aria nuova che mi spinse ad approfondire dopo tanta superficialità e che autorizzò me e i miei figli ad aprire quei diari sospesi, e a farne poi un libro.

Nel 2000, con l’istituzione della Medaglia d’Onore per gli ex internati, lo Stato italiano cercò di porre rimedio a decenni di oblio. Per quanto riguarda mio padre, morto nel 1999, ho ricevuto la sua Medaglia d’Onore nel 2024: un segno di riconoscimento che, seppur tardivo, testimonia il recupero della memoria di una vicenda troppo a lungo trascurata. Mentre la ritiravo, me lo sono immaginato lì al mio fianco, evocato il suo nome senza preavviso, commuoversi al richiamo dei ricordi e stupirsi per senza poter capire il ribaltamento morale avvenuto a sua insaputa.

E oggi, dietro il residuo silenzio e l’ottusa volontà di ridimensionare, la memoria continua a esistere. Rimossa, nascosta, ma mai del tutto cancellata. E, più passa il tempo, più quella memoria monocromatica assume colori intensi e contorni ancor più nitidi.